Il filo conduttore che collega la necessità di raggiungere gli obiettivi mondiali di riduzione dell’impatto umano, al mondo del fashion, costellato da numerosi brands e relative collezioni, è l’utilizzo di fibre riciclate. 

L’arte del riciclo, in un settore che ha sempre voglia di novità e cambiamento, non si applica solamente riproponendo lo stesso capo anche per occasioni diverse, ma soprattutto utilizzando l’economia circolare, ovvero la rigenerazione della materia prima (in questo caso, fibre tessili).

Il materiale il cui riciclo è maggiormente auspicabile, è il cotone: la sua produzione, infatti, costa molto all’ambiente, in termini di occupazione del suolo (altrimenti destinato al pascolo o alla coltivazione di specie alimentari), impiego di risorse idriche, fertilizzanti e pesticidi (eccezion fatta per il cotone biologico, ancora scarsamente coltivato), e, non ultimo, l’impegno di manovalanza che spesso, nelle aree più povere del mondo, dove sono situati i campi di cotone, è costretta a condizioni di lavoro poco salutari ed eticamente insostenibili.

Creare un buon tessuto in cotone, sia esso da fibra rigenerata o vergine, permette non solo la durabilità del capo, ma anche la possibilità di rientrare nel circolo virtuoso del riciclo, come materia prima: il cotone riciclato infatti, può essere impiegato, ad esempio, per imbottiture. Tuttavia, questa modalità di riciclo, ormai nota come down-cycling, non rende giustizia alla qualità della fibra originaria. 

Il riciclo che permette di ri-nobilitare (le fibre tessili) viene chiamato upcycling, ed è un processo che garantisce al materiale riciclato di mantenere le stesse caratteristiche dell’originale. Questo metodo di trasformazione è ormai un imperativo per l’industria tessile e della moda, dal momento che le direttive europee impongono di gestire, entro il 2022, la frazione tessile dei rifiuti urbani. Effettuare upcycling, nel settore fashion, prevede, ad esempio di selezionare i tessuti per composizione e successivamente per colore, in modo da ridurre al minimo l’uso di coloranti chimici per la successiva fase di tintura (che impiega anche notevoli quantità di acqua): se pensiamo, ad esempio, a quanti vestiti “abitano” il nostro guardaroba, ci rendiamo conto che circa l’80% di essi non è stato utilizzato più di una sola volta, oppure che non si è mai verificata l’occasione giusta per sfoggiare quel capo che tanto ci piaceva.

L’upcycling post-consumer mira proprio a recuperare tessuti da abiti già usati, in condizioni più o meno buone, per dare vita a nuovi filati e capi di tendenza; ma esiste anche l’upcycling pre-consumer, ovvero l’utilizzo di scarti di tessuto (sia esso una rimanenza nella confezione di un capo o di tessitura) da sfilacciare per creare nuovo filato, avente le stesse qualità di quello originario. 

Nella cultura giapponese, esiste un termine, mottainai, che significa “rammarico per uno spreco”: l’upcycling permette di recuperare vestiti (e oggetti) che altrimenti sarebbero stati buttati e farli rivivere in modo diverso per farli durare di più.

I tessuti, così, diventano nuovamente un bene duraturo, che ci accompagna per anni, da trasmettere alle future generazioni, insieme alla loro storia. 

Pubblicato

4 Novembre, 2021

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